Orvieto, Palazzo dei Sette 2004


Guardare lo sguardo

Testi di Enrico Mascelloni

Lo sguardo di un artista non è cosa da poco. Credo non lo sia mai stato, seppur l’arte recente ha concettualizzato persino lo sguardo. È forse per tali motivi, oltrechè per la speciale tensione dei suoi quadri, che quello di Giuliana Fresco mi si è immediatamente mostrato come uno sguardo d’artista o sarebbe meglio dire da ritrattista, giacchè è nel ritratto che trova alcuni tra i suoi esiti maggiori. E c’è forse genere migliore per calibrare uno sguardo ambizioso? Uno sguardo che prolunga nello spazio, azzerando il tempo, la dimensione del guardare. Di un guardare incontenibile che la modernità ha saputo render tanto spesso spietato quanto profondo.

Non c’è ritratto moderno degno di questo nome che non ne sia segnato, da Bacon a Lucian Freud. Certamente una tavolozza spesso calda e sontuosa rivela in Giuliana altre matrici; ma nei ritratti anche i colori, al modo dello sguardo, tendono a concentrarsi: economizzano i mezzi e focalizzano lo spazio ristretto di un volto. A guardarli bene i ritratti di Giuliana Fresco indicano assai più perentoriamente di altre opere di differente soggetto l’urgenza di una maggiore tensione del colore e del segno, sino a trovare nel proprio e impietoso Autoritratto, che è tra i suoi migliori esiti, un quasi monocromo carico d’infinte modulazioni di luce. Sono passati autentici cortocircuiti del linguaggio dal ben più accattivante Le Sorelline Morelli. Anche quell’opera mostrava un ritrattista sicuro di sé e dei propri mezzi sino al virtuosismo. Scaldate da una luce satura le “sorelline” lievitano come in un quadro di Renoir, in quell’eterno meriggio mediterraneo in cui l’impressionismo aveva trovato la sua dimensione classica e la sua pur alta accademia. Qualche anno dopo sarà un nuovo ritratto doppio, Lorena e Giulia, a chiarire che lo sguardo ha saputo fare i conti con altre luci e con una diversa urgenza della visione. Ancora due bambine, ma ormai come indifese contro il muro di colore livido che gli fa da sfondo e che pur s’insinua nei volti. L’Autoritratto del 2003 è ormai colore-luce che trascolora dal volto ad ogni altro particolare del quadro. Si potrebbe dire che la Londra reale e quella trasmessa dai suoi recenti e celebri pittori, cioè una luce che calcina senza pietà le facce ed i paesaggi, abbia ricalibrato interamente il linguaggio della Fresco, dandogli quell’eleganza di durezza e di raccolta drammaturgia che caratterizza l’altro suo principale soggetto: le scene sacre.

Le città in cui si è vissuti non lasciano certo indenne l’esperienza in genere e quella di un artista in particolare. Londra risponde alla sensibilità di Giuliana con una secca coincisione non priva d’accelerazioni drammatiche. La sua dimestichezza con la recente ritrattistica britannica ha soprattutto acquisito tale dimensione sospesa tra rigore e libertà espressiva. Ma l’altra città-linguaggio di Giuliana è in qualche modo Genova, dunque una suggestione che affonda nel barocco sontuoso del suo Secolo d’Oro. La nostra artista è una girovaga ed ha cambiato ben più città che modalità espressive, ma quella complicata miscela di suggestioni che determina la grana sottile di una città sino a farla percepire in simbiosi con lo stile dei suoi artisti migliori, Genova, in cui ha vissuto a lungo, è riuscita sicuramente ad infiggerla profondamente nel suo linguaggio. La pennellata larga e i cromatismi che possono diventare tersi come in un giorno mediterraneo di tramontana ci raccontano di quest’altra esperienza del dipingere. Le scene di carattere sacro, pur quando condotte al vero e proprio monocromo, sommuovono lo spazio e recuperano, dall’esperienza barocca italiana, la drammaturgia del movimento come relazione dei campi cromatici tra di loro e dall’esperienza moderna la disgregazione del colore stesso in una cezanniana sequenza di tasselli.