Revere (Mantova), Palazzo Ducale 1997


Paesaggio di figura

Testo di Marco Meneguzzo 

I “generi” pittorici godono di una cattiva fama immeritata, derivata loro dall’idea romantica dell’artista, che privilegiava il sentimento sul linguaggio, anzi, su ogni altra cosa: come si può rinchiudere l’arte entro schemi così rigidi, così coercitivi del sentimento vasto e indistinto dell’artista?

In realtà, a questa domanda così appassionata l’arte ha risposto con un percorso operativo-e di opere-che va in senso contrario rispetto a quella esportazione alla libertà del sentire di stampo romantico: tutta l’arte moderna e contemporanea, anche quella dalle espressioni più viscerali e automatiche, ha cercato faticosamente una “definizione” o, al massimo una “ridefinizione” dell’arte, facendo addirittura di questa ricerca una forma d’arte.

Così, la pittura non poteva restare fuori da questa linea analitica, tanto che oggi anche chi dipingesse con il furore del protagonista balzachiano del “capolavoro sconosciuto” o con l’automatismo meccanico della latta di colore forata, alla Max Ernest, contribuirebbe a questa incessante ricerca della definizione dell’arte, prima ancora che del sentimento, al linguaggio della pittura prima che a quello dell’anima, anche se, naturalmente, una cosa non esclude l’altra.

Tutta questa lunga premessa ci riconduce circolarmente al problema del “genere”, pittorico e all’uso particolare che di questo fa Giuliana Fresco. La definizione di “genere”, cioè la riduzione del soggetti dell’arte a poche grandi categorie – la figura, il paesaggio, la natura morta – e, all’interno di queste, a un repertorio di immagini e di situazioni vastissimo ma circoscritto, è anch’essa, a suo modo, una definizione del campo d’azione della pittura, e di questi ultimi tempi assume perfino l’aura di un orgoglioso ritorno, quasi di una rivincita sul nuovo a tutti i costi. In effetti, attraverso quelle categorie passa davvero tutto il mondo della rappresentabilità e, a ben vedere, a quelle categorie non si sfugge neppure quando l’opera pare essere inserita in queste definizioni: così, chi come Fresco accetta e dichiara di agire entro quel territorio è ben consapevole di usare quella tradizione alla luce di un’altra tradizione, la “tradizione del nuovo”

Ma l’opera e l’operazione di Fresco assume caratteri originali per il modo in qui usa il concetto di “genere”. Lungi dall’idea di scardinare le categorie della pittura – problema troppo legato alla vecchia avanguardia – l’artista prova ad agire in un territorio “intermedio” tra le categorie espressive e tematiche, installandosi per così dire in quella striscia di confine che non appartiene ad entrambi. Per questo il titolo di questo breve saggio porta con sé quell’ambiguità che è volutamente analoga all’ambiguità dichiarata della pittura di Fresco: “paesaggio di figura” assomiglia al “paesaggio con figura” – che è la quintessenza della pittura “ di genere”-, ma se ne differenzia sostanzialmente e concettualmente. Non si tratta infatti di creare un punto d’incontro tra pittura di paesaggio e pittura di figura, ma di costruire un vero e proprio piano intermedio ove il paesaggio sia anche figura, e viceversa: usare delle categorie così separate per mostrare come di fatto la pittura possa anche non esserlo e, questione non ultima, rispettando quella soddisfazione categoriale.

Così, partendo da un approccio emotivo alla pittura , in questi ultimi anni Fresco sta provando e riprovando a esplorare questa terra di nessuno, che non è sconosciuta, ma semplicemente inesplorata. In una bella serie di carte, in cui predomina la tecnica a carboncino una figura distesa, di cui si riconosce una mano e alcuni accenni di volto –anzi , è –un paesaggio ondulato è il suo tronco è una collina, le sue braccia le asperità del terreno e così via. Ora in questo caso, non si tratta né di una personificazione allegorica, alla maniera barocco, né di qualche speciale raffigurazione anamorfica, e neppure di una metamorfosi, tutte cose che troverebbero nella storia dell’arte e nella pratica della citazione i loro illustri precedenti: piuttosto è un percorso “di formazione” – così come avviene a certi protagonisti dei romanzi “di formazione”- che trova nella sua schiettezza e ingenuità non solo la sua giustificazione, ma addirittura la sua ragione d’essere e il suo interesse. Nel guardare alla tele e alla carte di Fresco – che ha iniziato solo da qualche anno a “mettersi in gioco” pubblicamente come artista – mi sono venute in mente certe tele di Arnold Schönberg, il musicista, in cui ritrova il tema della “mano” (tra l’altro, aveva appena composto “La mano felice”…) e un certo modo vagamente espressionista di dipingere, che è proprio anche di Fresco, ma che mi aveva interessato allora nel musicista, e che mi interessa oggi nella nostra artista, è quella pulsione creativa che spinge ad affrontare un linguaggio complesso come la pittura senza averne fatto un apprendistato tradizionale, nei tempi e nei modi.

Qualche volta un approccio così “disarmato” produce effetti singolari, persino importanti, perche il codice linguistico è manipolato in tutta libertà , senza quelle autocensure che spesso si riconoscono in chi di quello strumento conosce tutto. Così , il rapporto che Fresco ha intrecciato con la pittura non tiene conto, se non per inevitabile riflesso storico, dello “spirito del tempo” e si è avviato solitario a chiarire e a chiarirsi le proprie esigenze espressive; tuttavia, man mano che si precede nell’”illuminazione”, la conoscenza, la coscienza e la pratica si sovrappongono alla primitiva ingenuità creativa, ed in questo momento esaltante è difficile che l’equilibrio tra elementi può far scaturire una scintilla. Per Fresco, questo lampo sulla via dell’”illuminazione” è proprio nell’ affrontare la tradizione categoriale e separata della pittura, per vedere se non è possibile ridurre questa separatezza. Si torna così a considerare quelle immagini, quei paesaggi-figure che vivono in questo duplice territorio e che però non appartengono né all’ uno né all’ altro, come abbiamo scritto sopra: di fronte a questo tentativo, tutto passa in secondo piano.   La Qualità e i modi della pittura di Fresco, che non obbediscono a quel “raffreddamento” degli anni Novanta, e che proseguono su di una linea tendenzialmente espressionista (ma è poi un male?…); certe aggiunte vagamente retoriche, come i volti, o la tensione verso l’alto, che suggeriscono una narratività che è corollario alla pittura, sono le testimonianze sia dell’ autenticità di un cammino, sia della volontà di “cercare”, prima di “trovare” formule di fatto già disponibili e sicure: in questo senso il lavoro di Fresco è la dimostrazione di un cammino autonomo e personale, che la pittura stessa chiede a chi si voglia avvicinare ad essa, una specie di iniziazione che, però non finisce mai. Ma, ancor di più mostra quanto ancora ci sia di inesplorato in ciò che crediamo di conoscere perfettamente e che pensiamo di avere definito una volta per tutte: il territorio della pittura sta ancora subendo la deriva dei continenti.