Spoleto, Palazzo Racani-Arroni 2000


Evidenza senza confini

Testo di Martina Corgnati
 

“Cerco di raggiungere una “rarefazione dell’immagine”, per non dire troppo , perc non invadere e per lasciare spazio all’immaginazione…con l’impegno a conferire il massimo dell’equilibrio possibile fra una figurazione, anche se decantata e essenziale, e un modo di esprimerla astratto”. In queste poche righe, scritte nel 1998, è già contenuto tutto l’essenziale della poetica di Giuliana Fresco, una poetica niente affatto improvvisata per quell’occasione ( una mostra personale alla Galleria Seno di Milano avvenuta nella primavera – estate nel 1998) ma che, invece, già allora, era stato messo in punto in anni di paziente avvicinamento guidato solo da una propria intrinseca necessità, senza alcun significativa concessione e mode transitorie o ad un gusto formatosi nella mente e negli occhi altrui. Una poetica che oggi appare ancora più precisa e definita, grazie ad altri due anni di ricerca ininterrotta, costante, coerente senza pedanteria. Proviamo ad approfondire alcune componenti, a partire proprio dalle parole dell’artista stessa: l’immagine, innanzitutto, il primo termine cui Giuliana Fresco fa riferimento. Se c’è immagine c’è, di conseguenza, uno sguardo rivolto alla natura, alla realtà, al mondo esterno che suole infatti incarnarsi genericamente in immagine, in oggetto o fenomeno “da vedere”. Ma ecco un primo avvertimento: l’immagine è rarefatta, dilatata, aperta, quasi scomposta perché lo spazio possa insinuarsi in mezzo, perché quindi, dal tema dell’immagine ci si possa immergere in quello più vago e comprensivo dell’immaginazione. Il procedimento non è nuovo: “sempre caro mi fu quell’ermo colle…” , scrive il celebre poeta, un colle che appunto esclude il guardo, e pertanto consente nel pensieri di fingersi qualcosa: profondissima quiete, sovrumani silenzi… Il celeberrimo colle leopardiano de L’infinito funziona quindi, funziona già da “rarefazione” da creazione di un vuoto di significazione che solo l’immaginazione può riempire. Ed in questo mare l’annegar m’è dolce.

Quel che conta invece , in questa sede è cercare di individuare come Giuliana Fresco abbia affrontato il problema dell’indefinito che poi, secondo un’accezione più generale, coincide con il problema dello stile. L’artista “mette a nudo” nella sua stessa dichiarazione di poetica considerazione poc’anzi, il proprio particolarissimo modo di intendere e rappresentare l’infinito: cercando l’equilibrio fra la figurazione, che le sue opere sempre, inevitabilmente contengono, e il linguaggio astratto. In altre parole: l’artista vuole trattenere una sostanza di figurazione in una totalità pittorica che, a prima vista, si presenta come autonoma e, appunto, astratta.

Ma anche in questo caso, assai frequente specie nelle tele degli ultimi anni, dei personaggi in questione ci sono rivelate molte cose: le emozioni, gli incontri, la posizione, per così dire, simbolica di fronte a se stessi e agli altri. I rapporti che intercorrono fra le figure infatti, come spesso ed opportunamente i titoli dei quadri ci rivelano, possono spaziare dall’incontro alla conversazione, al dominio, alla “resa”. Soffermandoci un momento sulla conversazione, motivo a cui Giuliana Fresco ha recentemente dedicato un olio importante ed ambizioso, intitolato appunto Conversation Piece: un dipinto profondamente “silenzioso”, se così si può dire, i cui i personaggi non parlano affatto fra loro come ci si potrebbe aspettare, anzi non si rivolgono neppure l’uno all’altro, ma guardando tutti dalla nostra parte, come se fossero in attesa. Un’attesa sollecita, intenta, in qualche misura persino minacciosa.

Questa pittura è piena di sensualità, non teme l’esuberanza cromatica, il libero dispiegarsi del gesto, l’efflorescenza vitale della materia, ma non perde mai di vista l’intera armonia, la sobrietà, persino l’essenzialità di discorso, imperniata sulla fondamentale, equilibrata classicità da cui la ricerca di Giuliana Fresco prende la mosse e da cui mai si è allontanata nello spirito, pur concedendosi tutte le possibili variazioni e i possibili sviluppi: come capita, infatti, a quegli artisti che sanno restare sempre fedeli a se stessi pur compiendo un lungo cammino.

Con le opere dei primi anni 90 entriamo nel vivo nel mondo di procedere di Giuliana Fresco, sempre arricchito di innumerevoli precedenti reperiti nell’ambito della storia dell’arte, dalla tradizionale pittura e della scultura cui l’artista ha sempre guardato (fra cui si ricordano soltanto Odilon Redon, Henry Moore, Paul Klee, Giorgio Morandi e l’Hokusai della Grande onda evocata in un intenso acquarello di una decina di anni fa, L’ultimo viaggio). Ma l’attitudine di Giuliana Fresco on è mai stata veramente citazionista, il suo “polivalente sostrato di cultura”, come si scrive in altra occasione “non è vincolante perché risulta tutto compiutamente assimilato entro la tessitura trasfigurante di uno stile maturo. Giuliana Fresco non è mai stata una citazionista: sin dalle prime prove “pubbliche”, infatti, l’artista si caratterizza subito per una notevole originalità, per la sicurezza con cui cerca e con cui si apre il proprio sentiero fra l’abbondanza di intempestivi “ritorni” e di altrettanto improbabili abbandoni della pittura.

Piuttosto, nel suo caso, si tratta di memoria, una memoria vigile, una ricchezza impareggiabile e personalissima perché articolata di volta in volta come elezione, quindi carica di implicazioni soggettive. Lo sguardo, insomma, si fa ponte e veicola privilegiato di un discorso pittorico che rimanda e coinvolge comunque il sé, l’irrepetibile intimità del sentire. E l’opera guardate è sottoposta ad un processo di sublimazione, di alterazione di metamorfosi che la assimila completamente al nuovo tessuto di significazione e di pittura.

Inizialmente e per molti anni, la ritrattistica è stata quasi un capitolo a parte, interno ma esterno alla produzione “pubblica” dotato di un sintassi propria e destinato, quasi, ad altri committenti, in qualche misura più “privati”. Sfera chiusa di un fare specialmente particolareggiato, ove persino la coerenza espressiva giungeva talvolta ad abbassare le armi per lasciare spazio al volto e alla fisionomia del soggetto rappresentato.

Eppure (come non si esita a dire adesso che finalmente Giuliana Fresco ha acconsentito a rendere pubblica anche questa parte della sua produzione), che questi ritratti le appartengono quanto qualsiasi altro dipinto, perché anche in essi sta impressa un impronta inconfondibile, affondata nella mano della pittrice, nel tratto, nella maniera di incidere una ruga o una piega della pelle. Giuliana Fresco però è una vera ritrattista, è dotata di quel raro, anzi rarissimo talento di imprigionare il segreto di un volto.

A questo punto del suo percorso Giuliana Fresco ha dunque precisato il suo modo di procedere, ha arricchito il suo linguaggio di risorse espressive di variazioni formali costruite ad uso e misura del suo particolare lavoro e della sua personalità; muovendosi, per così dire, trasversalmente non troppo interessata all’ortodossia del discorso che viene elaborato rispetto a tutte le numerose categorie critiche o storiche che potrebbero fare da cornice (dall’informale tardo e tardissimo, al concettuale, ad un supporto neo-lirismo che la pittura oggi non è certo l’unica tecnica a rivendicare). Giuliana Fresco accetta le cornici ma non i vincoli, scelta assai intelligente in un’epoca in cui tutti gli schemi, tutte le tendenze, movimenti e categorie, non riescono a sostenere il confronto con la realtà dell’eclettismo imperante in cui l’unica variabile imprescindibile, e sempre degna del massimo rispetto, è il talento e la sincerità di un fare artistico che può essere soltanto individuale. L’artista oggi, a dieci anni di distanza dall’avvio del suo percorso pubblico, continua ad affrontare, si può dire opera per opera, la difficilissima sfida di rendere necessario ogni lavoro e ogni gesto e di decantare la dimensione strettamente individuale della sua pittura fino a affondarla in un’universalità tangibile ed evidente a tutti. Il suo repertorio espressivo, infatti, si è ulteriormente arricchito, arrivando a comprender, per esempio, accordi cromatici fino a questo momento elusi ( come quelli difficilissimi e sinfonici dei rossi e delle lacche), recuperando anche l’antica forma del polittico per orchestrare un tema o un sentimento secondo accezioni pittoriche ancora più complesse o coinvolgenti: ed, infine, sospendendo le conclusioni narrative in una tensione diffusa e rimandata ad un lavoro all’altro; dove, per così dire, ciascuno può riconoscere nei termini squisiti del piacere estetico qualcosa di un’emozione anche propria. Non è quindi inopportuno ormai, da viaggiatori attenti, tracciare un primo provvisorio bilancio del cammino compiuto.