Torino, Palazzo Bricherasio 2003


Cielo ocra terra blu

Testo di Victor de Circasia

 

Dagli anni 90, i quadri di Giuliana Fresco sono cresciuti in complessità. In precedenza, la critica aveva accolto con entusiasmo i suoi ritratti. Ma più recentemente, il suo lavoro è cresciuto in astrattezza, mostrando la necessità di lasciare che la pittura ed il colore diventino più espressivi.

Molto del lavoro della Fresco si colloca entro i limiti di riferimenti ad emozioni e sentimenti, rispetto ad un luogo particolare. La sua atmosfera si rivela nell’opera. Con somma maestria, l’artista riesce ad identificare ed illustrare un certo luogo, raggiungendo così profondità e consapevolezza.

I suoi quadri si liberano da una mera rappresentazione, presentandoci così una situazione diversa. Un linguaggio poetico animato emerge dai ricchi colori, permettendo di immedesimarci con la memoria, il tempo e lo spazio di quel particolare luogo. Ciò che ci attira nell’ambiente urbano dei suoi lavori è la musicalità con continue variazioni. Il lavoro ci mostra il cammino, le influenze e la rilevanza di quell’angolo dell’ambiente. L’artista dipinge ed è pienamente impegnata, tramite l’espressione ed il colore, nelle sue idee e ciò permette al di là dell’osservazione pittorica di apprezzare il colore, la dinamica e l’atmosfera del luogo.

L’impronta visiva della Fresco risiede nel suo uso del colore e nell’intensità espressionistica delle sue pennellate. Le sue tele riescono ad esaltare una tensione permanente tra l’astratto e il figurativo. Giuliana Fresco è costantemente tesa ad esaminare il colore nello spazio e ad articolare un contenuto visivo, senza tipizzare una situazione. Tralascia pure la ripetizione convenzionale di un’idea o tema e ricerca la sfida di riprodurre costantemente un lavoro nuovo. Il linguaggio visivo e l’intensità del colore, le pennellate robuste e le linee eleganti che attraversano la tela incrociandosi, sono intimamente legati al suo lavoro.

Questa mostra presenta autorevolmente la necessità di estendere gli orizzonti ed i limiti della tela. La pittura agisce quale messaggero e consigliere spirituale nei confronti dello spettatore, che in ultima analisi è colui che riceve la pittura.

L’astratto fa parte dello sforzo dell’artista di superare il mondo pittorico della rappresentazione a colori e del simbolo. La pittura ideale non dovrebbe essere imitazione della realtà o copiare la straordinaria ricchezza della natura. In qualche modo, dovrebbe metterla in discussione. L’artista predilige il rapporto con la tradizione contemporanea di un approccio diretto alla pittura, interazione al momentaneo; è attratta dalla creazione di un lavoro che è fuori dal tempo, direttamente percepibile ad occhio nudo, per realizzare una memoria visiva del momento ed impegnare così il fruitore ad osservare, piuttosto che semplicemente guardare.

La Fresco evita una finitura perfetta, annulla la struttura atmosferica della pittura e la reazione alla sensazione del colore. Dall’intera superficie del lavoro emerge uno sfondo ricco di soggetti, un intessersi d’immagini angosciate e, con un agire consapevole, ella distrugge le figure con macchie di colore. L’artista trasmette la rappresentazione inconscia con immagini che vengono sconvolte mediante scarabocchi frenetici, come se scuotesse la superficie della tela. Ella merge la realtà col sogno, mediante pennellate gestuali e consapevoli, tentando di dare espressione ed emozione all’atto eroico del dipingere.

I suoi quadri rappresentano una liberazione di emozioni e sono profondamente legati all’anelare costante verso un nuovo viaggio di colore e di materia che richiede una notevole attenzione visiva da parte del fruitore. L’effetto generale del colore segue una ricerca accurata di movimento e in certo qual modo, di austerità nell’umore dell’opera, nell’annotazione visibile di una sinfonia alla ricerca dei propri ritmi, piuttosto che l’atto di dipingere.

Il precedente lavoro di rappresentazione, figurativa ed accademica, è sorprendentemente segnato da un senso di sicurezza e trasmette una sensazione impressionistica. Il lavoro più recente ha provvisoriamente sostituito il controllo del colore con un’esplosione spontanea che investe ogni angolo della tela. L’artista preferisce dare spazio all’intervento gestuale della pennellata e dare ad intendere una relazione tra la figura e l’ambiente circostante. Accetta l’idea di riflettere situazioni familiari e particolari come punti di riferimento per la composizione, senza però conservare il racconto della relazione tra la pittura e un tema o descrizione grafica di un luogo. La maggior parte delle figure sono captate in pieno slancio, dipinte con armonie delicate di colori pastello, sciogliendo i loro legami con il paesaggio.

Le figure non identificate si trovano sulla tela come un abile congegno, dispiegate per dare uno spazio comune al rituale di tensione tra figura ed atmosfera, rivelando spesso i propri segreti mediante il titolo dell’opera.

Sacra conversazione:

Testo di Martina Corgnati

un soggetto nuovo, che rispecchia il profondo rinnovamento del lessico pittorico ed artistico sopravvenuto all’alba del secolo XV, dopo la secolare efflorescenza di visioni e di illuminazioni verticali e trascendenti. Meno spettacolare di tanti martiri e trionfi tardo medievali, scarsamente comunicativo dal punto di vista didattico, soprattutto in confronto alle tante storie di santi e alle narrazioni biblico-evangeliche che affollano le pareti delle abbazie. Razionale, però, lungimirante e silenzioso.

Le stesse figure di sempre, la Vergine col Bambino, attorniata da santi, qualche volta con l’aggiunta dei committenti in posizione più defilata, tutti disposti in bell’ordine intorno al suo trono. Parlano, ci assicura il titolo; parlano senza che alcun rumore disturbi la loro quiete e la loro profonda concentrazione. Parlano telepaticamente o meglio, partecipano di un’assoluta comunione di “amorosi sensi”. Infatti la loro taciturna immobilità non contraddice affatto l’idea di una “conversazione”.

Due esempi: la Pala di S. Zaccaria, fra le opere estreme di Giovanni Bellini. E la Pala di Brera di Piero della Francesca. In entrambi i casi, le figure partecipano dello stesso spazio, un loggiato aperto sullo sfondo di un paesaggio per Bellini, un abside elissoidale coronato dalla forma perfetta di un uovo per Piero. Condividono l’essenza geometrica (Piero) e atmosferica (Giovanni), bevono il fluido di una stessa luce, sanno le stesse cose. Non si parlano e neppure si guardano. Gli occhi di Piero fissano vuoti qualcosa di indistinto e di lontano, di imperscrutabile, senza dolore nè gioia, senza neppure un accenno di quella che noi chiameremo espressività. La loro conoscenza condivisa è all’altezza delle stelle fisse. Sul loro orizzonte non c’è mutamento. Quella di Bellini, invece, non è una formula matematica, è un luogo, ha un’ora, quest’ora delinea una circostanza. Santi e cose vivono in una sospensione ermetica. La Vergine non sorride ma qualcosa le aleggia sul volto. Questo qualcosa si potrebbe chiamare forse malinconia. Nel segno della malinconia personaggi e cose acquistano tutto il loro senso. Il passo che il bimbo sta tentativamente provando potrebbe risolversi mai in un gesto compiuto, ma gli occhi carezzevolmente abbassati della madre vedono oltre, eppure indugiano nella pacificazione incontrastata di un istante fuori dal tempo. Anche in questo caso nessuno guarda nessuno. Non c’è bisogno. La musica totale che pervade l’insieme li attraversa tutti nello stesso modo. Tutti partecipano della stessa atmosfera emotiva, come note di un accordo.

Giuliana Fresco conosce bene questi quadri, conosce bene il senso di un tema come la sacra conversazione. Anche le sue recenti Conversations consistono fondamentalmente di spazi condivisi grazie ad una medesima conoscenza, ma ancora più intimamente, ad una medesima appartenenza.

Non si tratta di un soggetto nuovo per lei. Già alcuni anni fa, alcune fra le sue opere più convincenti si chiamavano proprio Conversations Pieces, all’inglese. Non perchè, in queste tele, qualcuno parlasse. Ma perchè nell’idea di “conversazione”, comprensiva di tutte le ascendenze “sacre” e colte di cui si è già in parte detto, l’artista ritrova allora, come ritrova adesso, la concentrazione giusta per elaborare la pittura al suo ritmo e al suo modo, che sia insieme lento e attuale, astratto e rappresentativo, espressionista e classicheggiante.

A tutto questo c’è un precedente, una fondamentale esperienza intermedia, in termini più spirituali che stilistici: Cèzanne. Nelle tre ultime Grandi Bagnanti, Cèzanne compie in forme per così dire assolute, le tensioni frontali che hanno sempre contrapposto in termini assolutamente antagonisti i suoi personaggi. Al desiderio, alla violenza, all’emozione che travolge e trascina via, subentra l’equilibrio; l’equilibrio dissolve le circostanze dell’identità dei singoli, del loro genere, del loro sesso; trasforma i corpi in cose simili a tronchi e i tronchi in cose simili a corpi; e tutto partecipa di uno stesso principio unitario, di simmetria e di compensazione di forze.

Anche in questo caso si tratta di capolavori atmosferici e silenziosissimi, conversazioni se vogliamo, nel senso di luoghi a cui partecipano. Giuliana Fresco condivide con Cèzanne, fra l’altro, l’indeterminatezza di quel che è inutile precisare in dettagli ridondanti. E la mancanza di contatto. I suoi personaggi, meglio le sue presenze affondate nel colore si sfiorano senza sopraffare la densità dello spazio di vibrazioni materiche.

I loro corpi partecipano dell’insieme e questo insieme ha un nome preciso: Harrington Gardens. Si tratta di un giardino londinese, come molti sanno e come non è un mistero per nessuno, nemmeno per Giuliana Fresco che non ha nessun bisogno di occultare le sue fonti d’ispirazione e i riferimenti biografici che entrano nelle sue elaborazioni pittoriche come i mattoni entrano nella costruzione di una casa. L’artista vi abita davanti e col tempo ha imparato a distinguere i caratteri ed i modi del “club” degli Harrington Gardens, i termini e i modi dell’appartenervi. Aiutata, in questo, dalla relativa distanza, dal suo essere un’indefessa e convinta part-timer tanto a Londra quanto in Italia. La sua esistenza stessa partecipa di diversi spazi e luoghi e, grazie all’esercizio della mobilità continua, arriva ad osservarli tutti con il distacco e la coscienza di chi sa che tutto è relativo, che un’altra partenza è ormai prossima.

Collocarsi fra il fuori e il dentro di qualcosa significa anche, magari, dipingerne un quadro. Ma non per questo Giuliana Fresco descrive o racconta un vissuto, un vivibile, un qualcosa di tipico, qualcosa che c’è lì proprio in quel posto di cui si dipinge. Delinea invece le strutture fondamentali di un insieme di circostanze, di un’alternarsi polifonico ed orchestrale di presenze, anzi di compresenze. Le figure, addensamenti a volte appena percettibili nello spazio del colore e nel tempo di un gesto, si sfiorano senza incontrarsi. Sono segni, atti di disegno nel fondo denso del colore. Ma non solo: la loro è una situazione che contempla una distanza reciproca e relativa. Spesso infatti il “luogo” della rappresentazione è osservato come dall’interno attraverso una finestra, oppure si tratta di un interno osservato come dall’esterno attraverso una finestra. Spazi multipli, insomma, obliqui ed armonici. Anche Alberto Savinio faceva spesso così. Le sue composizioni prevedono questa soglia, appunto una finestra o una tenda semiaperta, nel suo caso, che collega dimensioni spaziali separate ma reciprocamente connesse. E Giuliana Fresco, adesso più che mai, mostra di prediligere una complessità articolata, un’orchestrazione di dentro e fuori che rendano più problematica ed avventurosa, in qualche modo più “cinematografica” la visione dell’opera.

C’è, poi, la tendenza a dilatare la composizione oltre le possibilità offerte da una superficie singola, oltre al quadro con il suo spazio ritagliato ed individuale, spazio autonomo e separato dal contesto, dal luogo del nostro esserci. Già da tempo l’artista ama frammentare le sue composizioni in vere e proprie deflagrazioni di segni e di dettagli che invadono lo spazio della parete; e oggi ancora di più mostra di prediligere la dimensione del polittico, dell’ensemble. Più tele, di formati vari e differenti, dispiegate nell’ambiente a costruirvi una serie di rimandi, di rispecchiamenti, di richiami, con esiti talvolta dichiaratamente teatrali e sempre col preciso proposito di dialogare direttamente con noi, con il nostro luogo ed il nostro modo di abitarlo.

Lo spazio, quindi, tutto lo spazio viene implicato nel farsi dell’opera che si sviluppa tridimensionalmente, in soluzioni multiple, in temi e variazioni continue. Un quadro rimanda all’altro. Un personaggio appena accennato, comparso improvvisamente in primo piano nel cast degli Harrington Gardens, accenna a qualcuno in un’altra tela.

In più occasioni Giuliana Fresco ci mostra oggi che non tutto è previsto e stabilito a priori e che quando si comincia un quadro non sempre si sa dove e come si finirà. In altre parole: il rischio di sbagliare, il rischio che l’equilibrio della composizione si risolva in modo non perfetto, il rischio che qualcosa vada storto o semplicemente non dica e non sia tutto quello che ci si può aspettare da un “capolavoro”. Giuliana Fresco è tutt’altro che persona sprezzante e questo tipo di facilità non l’ha mai avuta nè cercata. La sua fondamentale onestà le ha sempre imposto di prendere ogni quadro molto sul serio. Nella sua produzione, la fase dello studio compositivo è sempre stata fondamentale, con esiti che nel momento delle Nascite hanno raggiunto un peso e un’importanza davvero classica. Oggi però il tempo lineare della spontaneità, del rischio rivendica i suoi diritti. La composizione di una nuova opera può partire semplicemente da una linea obliqua, da una sensazione di equilibrio, da una forma umana intenta a qualcosa, schizzata di getto. Si tratta di un tempo diretto, nel quale si corre frontalmente il rischio di sbagliare o di non andare fino in fondo. In altre parole: qualcosa potrebbe non funzionare, una tela, questa tela, potrebbe anche venire male, ma non è una buona ragione per rinunciare alla presa diretta di un’intuizione, di un gesto felice, di un’invenzione nuova, fra figura e colore, fra pennellata e disegno. “Quando si è principianti ci si prefigge compiti impossibili, si vuole dire troppo, forse. Si pensa che ogni tela debba essere quella fondamentale. Adesso dico meno, magari”. Anche soltanto un musicista intento a suonare il violoncello, solo in mezzo al bianco della tela preparata. » un altro protagonista degli Harrington Gardens.

Giuliana Fresco ama molto la musica. Se ne circonda mentre lavora e non solo. “Bach, soprattutto, i barocchi, qualche Mozart e Beethoven da camera”. L’artista non ha alcun timore a dire qualcosa di sè, ad inserire un frammento di autobiografia nel proprio discorso pittorico; qualcosa che affiora dalla vita non nel senso banale del racconto o della descrizione, ma elevandosi all’altezza della coscienza, della sublimazione, quindi tutto consumato in linguaggio.

D’altra parte c’è qualcosa di strano in questo? Non credo di sbagliarmi di molto quando dico che la pittura, specie la grande pittura recupera sempre qualcosa della vita, della storia, a volte persino della cronaca quotidiana. Il problema è soltanto come.

E forse è proprio per questa sua copertura nei confronti della vita che Giuliana Fresco ha sempre amato dipingere ritratti, un genere desueto forse, sottovalutato senz’altro, ma straordinariamente importante nella storia della pittura. » un genere per cui l’artista ha sempre dimostrato una notevole predisposizione e sensibilità. “Qui c’entra l’Inghilterra, il fatto di vivere in un paese dove il ritratto è più apprezzato e frequentato che in Italia”. Da Sickert a Lucien Freud, gli artisti inglesi sono straordinari ritrattisti. E sotto questo profilo Giuliana Fresco è un’artista inglese; soprattutto oggi che non si preoccupa più di distinguere stilisticamente un genere da un altro ma ha pienamente integrato il momento dell’analisi di una faccia al solco maggiore della sua pittura e del suo linguaggio. “Un volto implica un certo constraint, un obbligo di definizione che io apprezzo. Bisogna passare di lì per forza: poi si può  fare quel che si vuole. Ma una fisionomia, un’espressione è qualcosa che va presa molto sul serio, così come il fatto di risolverla in pennellate e colori”. Colori che di volta in volta cambiano e contrappongono tocchi di luminosità, per esempio, accensioni accordate su quel viso e quel personaggio alla sinfonica prevalenza dei toni perlacei, dei rossi e dei gialli sfrangiati che questa mostra propone.

Soprattutto nel caso di uno splendido, recente ed impetuoso autoritratto che Giuliana Fresco ha impostato nel modo più classico, allo specchio. Un dipinto ingombrante al di là delle sue dimensioni piuttosto ridotte, perchè si pone come una grande, individuale presenza nel contesto più rarefatto di figure senza volto che popolano questi nostri giardini della pittura. » lei lo sguardo che dà senso agli Harrington Gardens. » intorno a lei che, ancora una volta, si dispiega la conversazione silenziosa, l’implicita comune appartenenza di tutte le parti al “gioco” o alla “musica” (play in inglese li contempla entrambi) dell’arte.